1 giugno 2011

Lettera (di un Valdostano) da Barcellona: Spagna, le Ragioni di una Crisi

Ecco la seconda puntata dell'annunciato «Lettere da Barcellona» di Federico Martire, universitario valdostano in terra iberica dove sta portando a termine il suo Phd. Il tema è quanto mai di attualità.

La Spagna è nell'occhio del ciclone. Il paese iberico è stato, nelle ultime settimane, ampiamente presente sulle prime pagine di tutti i giornali europei, dapprima per le manifestazioni dei cosiddetti "Indignati" (meglio conosciuti in Spagna come "Movimiento 15M", dalla data – il 15 maggio – in cui le proteste di piazza sono iniziate), poi per la batosta elettorale subita dal partito di governo – il PSOE – nelle consultazioni amministrative del 22 maggio. Entrambi gli avvenimenti hanno un minimo comun denominatore che li ha scatenati: la gravissima crisi economica e occupazionale che colpisce la Spagna. In un caso, i manifestanti del 15 sono coloro che più si sentono colpiti dalla situazione, mentre nell'altro, il PSOE è il partito che non è stato in grado di gestire il declino del paese.
I più attenti, tuttavia, ricorderanno che fino a solo pochi anni fa si parlava di miracolo economico spagnolo, e di un paese che, in termini di PIL e reddito pro-capite, era in grado di competere con l'Italia e con le altre grandi potenze economiche 'tradizionali'. Ma allora, che ne è stata di quella Spagna? Quali sono le ragioni di una crisi profonda e di lungo corso come quella attuale?
Le radici del grave malessere del regno sono profonde, e non possono essere ricercate solamente nella fase più recente della crisi. E partono sin dal 1998, quando al governo della Moncloa c'erano i conservatori del Partido Popular guidati da José Maria Aznar. Il governo di centro-destra immaginò di dare un forte impulso all'economia iberica attraverso quel settore economico che, più di tutti, garantisce crescita e impiego nel breve periodo: l'edilizia. Con l'obiettivo di incentivare il boom del settore, e di garantire a tutti gli spagnoli una casa di proprietà, Aznar promulgò una riforma della gestione del territorio ancora oggi conosciuta come "Ley de Suelo". La legge, molto semplicemente, incentivava la trasformazione di ampie porzioni rurali – soprattutto lungo la costa mediterranea – da territorio agricolo a edificabile, affiancando vantaggi fiscali per i costruttori. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: la costa (ma non solo) spagnola è stata pressoché completamente cementificata. Rimangono molte eccezioni e incantevoli scorci mediterranei, è vero, ma il moltiplicarsi di edifici dalla Catalogna all'Andalusia è evidente, senza dimenticare la crescita del mattone nelle zone interne.
La ley de suelo del 1998 fu accompagnata – quattro anni più tardi, sempre sotto governo Aznar – dalla riforma del mercato del lavoro, diretta a favorire la contrattazione da parte delle imprese (soprattutto quelle del mattone) attraverso una sostanziale riduzione dei diritti sindacali dei lavoratori. L'obiettivo – chiaramente ridurre l'elevato tasso di disoccupazione – fu sostanzialmente raggiunto, ma a caro prezzo: molti giovani spagnoli abbandonarono gli studi per dedicarsi all'attività lavorativa, provocando un eccesso di offerta sul mercato del lavoro che non fece minimanemente crescere i salari medi degli spagnoli, tanto che, nel 2005 – già in epoca socialista con Zapatero – era sugli stessi livelli del 1998. Nel frattempo, tra l'altro, i prezzi per metro quadrato degli appartamenti erano più che raddoppiati, segno che la ley de suelo non aveva minimanemente prodotto i risultati sperati a causa di gravi errori di pianificazione del territorio e della tassazione collegata.
Risultato? Mentre il PIL iberico saliva alle stelle e la disoccupazione scendeva a livelli record, la Spagna stava già affossando sé stessa. Il boom economico creato da Aznar e fomentato da Zapatero si basava infatti su una finzione fatta di mattoni e cemento, pronta a crollare da un momento all'altro. Già, perché siccome i salari non crescevano ma il prezzo degli appartamenti sì, gli spagnoli, soprattutto i più giovani, si vedavano costretti a contrarre, con poche garanzie, mutui eterni, fino a 40 anni, con banche interessate solo al profitto a breve termine e non alla crescita (aziendale) di medio-lungo periodo. L'indebitamento medio delle famiglie spagnole cresceva così a livelli esponenziali, e con esso anche l'esposizione delle casse di risparmio e delle banche iberiche nei confronti di istituti stranieri, prevalentemente tedeschi (Commerzbank su tutti).
Il castello di carte era, dicevamo, pronto a crollare da un momento all'altro, e lo scoppio della bolla immobiliare e la crisi creditizia negli Stati Uniti (2008)  fu la classica goccia che fece traboccare il vaso. Dal giorno alla notte gli istituti di credito spagnoli cessarono l'emanazione di credito, lasciando sul lastrico migliaia di famiglie ed imprese, e ritrovandosi presto proprietarie di un numero impressionante di appartamenti vuoti che nessuno si poteva più permettere. La spirale iniziava a prendere forma, e colpì dapprima la crescita del PIL statale – incapace di riprendersi perché fondato pressoché solo sul mattone e quasi per nulla su fattori, come la ricerca e lo sviluppo, che garantiscono continuità nel medio-lungo periodo – e poi, naturalmente, l'occupazione. Il colpo fu particolarmente duro per quei giovani che, dopo aver abbandonato gli studi attratti da un mercato del lavoro in rapida crescita, si ritrovavano di colpo senza impiego e senza le qualifiche necessarie per ricollocarsi altrove. E' la cosiddetta "generación perdida" (la generazione perduta) che adesso si ritrova, insieme ad altri gruppi sociali, a manifestare per le piazze di Madrid, Barcellona e delle altre città spagnole contro quel sistema che li ha traditi.
I dati della crisi sono ora sotto gli occhi di tutti: crescita del PIL azzerata e tra le più basse in Europa e nel mondo, disoccupazione a livelli record (21%, la più alta della EU-27 e la quarta in Europa dopo Bosnia, Kosovo e Macedonia), oltre tre milioni di appartamenti vuoti e inutilizzati, banche indebitate sino al collo e prospettive grame per il futuro. La Spagna è perciò sempre più periferia d'Europa, parte di quei PIIGS (i maiali, Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e, appunto, Spagna) che tanto preoccupano l'economia continentale. Il tracollo spagnolo – imputabile principalmente ai governi di ambo i colori e al sistema bancario – non si è ancora trasformato in bancarotta grazie al basso indebitamento pubblico (circa 60% del PIL – poco più della metà di quello italiano, tanto per dare l'idea) che tuttavia cresce rapidamente a causa del verticale incremento del deficit accumulato negli ultimi tre anni e che si accumulerà nel prossimo futuro. Questa condizione fa sì che la situazione spagnola non sia comparabile a quella della Grecia o del Portogallo (o, in prospettiva futura, a quella dell'Italia o del Belgio), paesi caratterizzati da gravi crisi del debito sovrano, quanto più a quella dell'Irlanda, le cui banche sono state salvate dall'intervento della UE. Le recenti oscillazioni dello spread dei bond spagnoli rispetto a quelli tedeschi (il riferimento a livello europeo) sono da imputarsi quasi esclusivamente alle speculazioni finanziarie sui mercati del sud Europa, speculazioni che la UE dovrebbe aver il coraggio di affrontare di petto per evitare un vero tracollo dell'area Euro. Un eventuale intervento europeo per salvare le banche spagnole non è tuttavia da escludere, così come l'eventuale nazionalizzazione di alcune di esse, soprattutto se nei prossimi mesi gli istituti creditizi spagnoli non saranno in grado di fornire le garanzie necessarie che i creditori esteri richiedono. Il governo spagnolo sta implementando in quesi mesi una riforma parziale del sistema bancario che potrebbe dare ossigeno al settore, ma è presto per giudicare.
Sta di fatto che la situazione è tutt'altro che rosea, e che un eventuale intervento europeo in Spagna potrebbe, date le dimensioni dell'economia iberica, provocare un effetto domino speculativo tale da trascinare altri paesi verso il baratro, Italia e Belgio su tutti.

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