Ospito volentieri un post di Giancarlo Borluzzi nato da un breve scambio di opinioni nello spazio commenti di alcuni mesi fa. Si tratta di un suggerimento di business. Sarebbe interessante sapere che cosa ne pensano gli addetti ai lavori.
Tornato da Taiwan, vorrei esporre, come consigliatomi dal Direttore, una mia proposta imprenditoriale che potrebbe coinvolgere operatori valdostani in tale isola. Non sono imprenditore, ma ho esperienza di viaggi e questa agevola nel prospettare un'iniziativa in una realtà lontana. Ingredienti imprescindibili sono costituiti da un paese (o più) i cui abitanti posseggano un'adeguata capacità di spesa e dalla possibilità di utilizzare localmente un prodotto valdostano.
Sul primo ingrediente sottolineo che a Taiwan si vive bene con un costo della vita accettabile: nè basso come in Laos, nè proibitivo come in Giappone; direi che è a livello della Corea del Sud e quindi vi è la possibilità di affittare locali a quei costi ragionevoli che caratterizzano anche quelli della manodopera. Se l'idea funzionasse, potrebbe essere esportata nei paesi vicini ove i costi da affrontare sarebbero positivamente colmati dalla fruizione dell'iniziativa da parte di residenti e turisti.
Parto da una considerazione che non è una digressione bensì la radice della mia proposta: a Taiwan il thè (in una versione locale, l'oolong, la cui coltivazione su pendii anche molto scoscesi impreziosisce il paesaggio) impera e viene servito gratuitamente in quasi tutti i ristoranti durante i pasti. Ma è un thè particolare, non proprio verde, mai zuccherato e comunque tale da accompagnare positivamente cibi cinesi, ma non adatto quale "thè delle cinque" con i pasticcini, tant'è che nei bar dell'isola è quasi assente.
In tale contesto, hanno avuto buon gioco le iniziative volte a introdurre il caffè come prodotto principale in bar di ottimo livello ove ci si può sprofondare in comode poltrone e accompagnare il caffè o bibite tradizionali con tramezzini e leccornie varie. La multinazionale statunitense Starbucks Coffee è diffusissima e la sua insegna indica il luogo più comodo ove poter fare una sosta da parte di locali e turisti. Non solo, ma sulla scia dello Starbucks sono sorte anche altre catene con caratteristiche affini, diffuse a Taiwan come in altre parti dell’estremo oriente, segnatamente a Hong Kong e Macao. A Taiwan c'è pure una catena intitolata a Dante Alighieri....
I prezzi delle consumazioni in questi templi del caffè (e del relax) sono sicuramente elevati rispetto a quelli di altri locali, ma l'affluenza è grande visto che il bere caffè non è l'unica motivazione per visitare tali catene: sottolineo che un qualsiasi Starbucks offre almeno trenta tipologie di bevande ispirate al caffè e circa altrettante per thè e bibite varie; considerando che le grandezze delle tazze presentano formati small-medium-large (ma le dizioni locali sono più pittoresche!), risulta che si possono fare oltre 200 ordinazioni diverse in un ambiente elegante con ottima musica e sovente su due piani. Ciò premesso, la mia proposta "copia" quanto detto sul caffè, nel senso che sostituisce il vino a quest'ultimo. Stessi locali con ottimi arredi, vini di ogni tipo generalmente venduti al bicchiere e snacks che si sposano con questi ultimi.
«ItalianWine» potrebbe chiamarsi la catena: anche se i vini fossero solo valdostani sarebbero fuori luogo eventuali pruriti regionalnazionalistici perché sarebbe comunque il riferimento all'Italia a tirare e nelle descrizioni si potrebbe fare riferimento alle caratteristiche montane dei vigneti valdostani.
Il vino è oggi presente, e in misura ridotta, solo in certi alberghi, ove predominano quelli australiani, cileni e californiani e... cinesi continentali. Di italiani io ho visto solo quelli toscani dell'Antinori, con bottiglie da 20 a 140 euro... Si tratta di creare delle vinerie ispirate al prodotto italiano (qui, come in tutto il sudest asiatico, i marchi della nostra fashion sono presentissimi con negozi di prim'ordine), degli "ItalianWine" che sfrutterebbero sia la volontà locale di incontrarsi, sia quella pratica del ristoro. Ritengo i costi ampiamente coperti dagli introiti, che, come detto, sarebbero remunerativi visto il target dell'operazione. Tali vinerie potrebbero essere piazzate sia nei grandi centri commerciali ove si vende di tutto ad alto livello, sia in modo autogestito negli hotels di miglior stellaggio e localizzazione.
Accludo, come ulteriore chiarimento, una foto da me scattata nella parte interrata del "Taipei 101", edificio in Taipei di 101 piani e 508 metri di altezza, a forma di canna di bambù e costruito con una rivoluzionaria tecnologia antisismica e antivento (da poco un edificio in Dubai l'ha superato in altezza). Nel Taipei 101 si sono affittati spazi di ristoro vicino a quelli per fashion e oggettistica varia: è così possibile fare in tutta la modernissima Taiwan e l'accostamento mi pare azzeccato.
Credo che si possa superare la sostanziale esclusiva dell'utilizzo del vino sulle tavole dei grandi alberghi o dei ristoranti con pedigree; un buon inizio sarebbe la premessa per entrare nelle grandi città dell'immenso mercato cinese e magari giapponese. Se qualcuno vuole tentare...
Il crinale fra protesta e democrazia
10 mesi fa
10 commenti:
Propongo - anziché Italian Wine - ITALIANO's, con una serie di motivazioni (che non vado ad elencare qui, ma (tra l'altro) con l'obiettivo di inserire in questa felicissima idea qualche ingrediente 'culturale', come piccola mostra fotografica, alcuni lemmi della nostra lingua..., e così via.
Complimenti!
@Silvana Biasutti
E' un onore ospitare un suo commento su questo blog. La sua passione per il mondo rurale è fonte di ispirazione...
Caspita! grazie. Io 'intrallazzo' anche, con la sua bella regione... grazie davvero.
Sono lieto che l'autorevolissima Silvana Biasutti abbia letto il mio scritto. Ma devo dire di non condividere la proposta di modifica dell'ipotetico ItalianWine (tutto attaccato secondo me) in ITALIANO'S. Il perchè è legato all'isola ove è nata la mia intuizione. Quando un taxi ci portava all'hotel di Taipei mi pareva di essere in Italia, percorrevo un ampio viale i cui lati stradali erano elegantemente porticati e spiccavano le stesse insegne con i marchi della moda che si potrebbero vedere in via Condotti o Montenapoleone; solo che gli interni dei vari negozi sopravanzavano in classe complessiva gli omologhi nazionali, discorso sicuramente valido pure per altre località del nordest asiatico. Insegne e marchi che si ripetono in tutti i centri commerciali, a Taiwan lussuosissimi quanto in scala sconosciuta in Italia. Ebbene, il nome Italia, italiano è certo acquisito, ma per nulla il concetto del vino. ITALIANO'S attirerebbe di primo acchito chi ha problemi di guardaroba, non di stomaco, sete/fame, e desiderio di trovare un... boutique-bar ( termine da me ora inventato). La mia proposta si basa sul vino,sostanzialmente sconosciuto, e per questo ritengo fuorviante il termine generico pur consigliato da preparatissima fonte.
Premessa: non sono un esperto di marketing ma solo un appassionato. Pertanto quando scriverò è semplicemente il pensiero formatosi raccogliendo informazioni qua e là. Come tale pronto ad essere smentito... L'idea in sé è interessante, soprattutto trattandosi di un mercato vergine. Quello che mi lascia perplesso è il discorso costi/ricavi; un produttore mi raccontava che è andato nel sud-est asiatico per valutare la fattibilità di aprire nuovi canali commerciali. Il problema sono le tasse che vengono applicate, facendo lievitare enormemente i costi (l'esempio che mi veniva fatto vedeva una bottiglia da 3 euro prezzo franco cantina lievitare a 30-35 euro). Con questi costi, inevitabilmente, il target di riferimento sarebbe quello di fascia altissima o europeo. Target che spende senza problemi di fronte ad una bottiglia di Gaja, di un Antinori o de Le Cretes. Ma come si comporterebbe di fronte ad una cantina "minore" (in fatto di nome, sia chiaro)? Il rischio, per come la vedo io, sarebbe quello di replicare l'offerta di alberghi o ristoranti con pedigree.
Sul nome concordo sull'utilizzo di ItalianWine: due concetti, indicazione chiara e soprattutto inglese, pertanto facilmente riconoscibile da un target molto più ampio.
@Borluzzi e @enofaber.
Discussione molto interessante, anche perché stiamo parlando del COME FARE e non solo del 'cieco' fare.
Il mio intervento aveva e ha origine da una sensazione che mi accompagna da un po' di tempo; cioè che sul 'made in Italy' sia passato uno schiacciasassi composto da scandali alimentari ed enoici, ma anche da tantissima indifferenza (e ignoranza, nel senso più autentico della parola). Insomma abbiamo (anche se coloro che scrivono qui possono chiamarsi fuori) ignorato troppo a lungo l'italianità immateriale - nota alle persone più colte, ai contadini, ai cittadini sensibili e a qualche imprenditore; anche a qualche grande imprenditore - sottovalutata da tutti. E ora che 'ci stiamo abituando' alla diffusione dei beni culturali (il cui valore arricchisce i nostri prodotti, ammantandoli di UNICITA'), rischiamo di lasciare in un angolo NOMI e TOPONIMI che possono aiutarci nell'affermarli presso pubblici lontani da noi e piuttosto preparati culturalmente...
ma è un discorso lunghissimo e la sede per aprirlo è certamente questo blog, ma dovremmo proseguirlo altrove e altrimenti.
In ogni caso trovo l'idea interessante e non mi FISSO nemmeno su quello che (però!) non considero un mero particolare.
Inoltre, @enofaber, penso che le piccole realtà dei grandi vini devono sforzarsi di farsi conoscere, trovare le strade giuste: credo che il mercato abbia nicchie più o meno grandi ben adatte a loro, in tutto l'universo mondo!
E scusate per la lunghezza!
L'iniziativa non presenta di certo un percorso senza ostacoli tuttavia occorre diffondere al più presto una certa idea di made in Italy fatta di territori e di persone, di cultura viva, di scelte di vita non da rivista patinata. E già il solo pensare a nuovi modi per esprimerla può essere di stimolo per tutti.
@biasutti: sono assolutamente convinto che le piccole realtà debbano sforzarsi per ampliare il proprio mercato. Proprio grazie all'ospitalità di F. Favre, qualche tempo fa scrissi su questo blog esortando le aziende vitivinicole valdostane ad "uscire allo scoperto". E alcuni piccoli produttori, anche grazie al supporto di Valérie della Route des Vins, hanno accolto questo appello intraprendendo "strade nuove".
Le sue parole sullo "schiacciasassi" fatto dagli scandali mi hanno convinto ed aggiungo... come se non bastasse ci sono altri meccanismi più subdoli che corrono il rischio di inquinare definitivamente il vero Made in Italy (mi riferisco nella fattispecie a McItaly)... grazie per la sua cortese risposta. A presto!
@enofaber: McItaly, un inaudito scandalo - che ho abbondantemente commentato su vinoalvino.org, - è proprio quello che avevo in mente anch'io.
@ enofaber. Conosco tutto l'est asiatico perchè mi piace viaggiare e la mia proposta deriva da due fatti, concatenati. I miei due figli potrebbero, terminati gli studi, fare export di vini proprio in oriente. L'idea ci è venuta in Laos parlando con un francese che nel centro del centro di Vientiane ha aperto un negozio( dagli esterni che si impongono non meno degli interni) di vini francesi che vende sia lì sia ad alcuni esercizi/alberghi laotiani con buon successo. I prezzi non sono proibitivi. Nel mio articoletto indicavo comunque una preferenza non per il sudest asiatico, ove la possibilità di spesa è minore e vi sono paesi ove il vino è considerato suppergiù peccato (tranne nei five stars), bensì per il nordest asiatico (Corea e Taiwan in primis, ove l'affitto di locali non ha parentele coi costi nipponici e la gente ha un'apprezzabile capacità di spesa). A me non risulta che una bottiglia possa essere dappertutto così penalizzata dalle tasse. In un ristorante alquanto stellato di Taipei a 20 euro si trovava un Antinori che in un pari ristorante italiano sarebbe di poco sotto tale cifra, anche se in un ipotetico grande magazzino scenderebbe ben sotto ai 10 euro. A Napodong, quartiere chic di Busan, seconda città coreana, il vino europeo viene pagato come in Italia o poco più. In tale ITALIANO'S/ItalianWine il vino sarebbe venduto al bicchiere, ergo 5 bicchieri per una bottiglia che può costare ben meno di 10 euro comprese tasse e trasporto. I vini australiani, cileni e californiani sono assai più diffusi di quelli italiani e costano alquanto di meno. Va detto che le tasse sulle importazioni sono generalmente maggiori nei paesi meno sviluppati che seguono tale via per migliorare un pò i bilanci statali (per questo preferisco il nordest al sudest asiatico, anche se Singapore e le capitali non vanno escluse a priori). Altri particolari personali: se tale idea (quella dell'export di vini nel far east, non parlo dei boutique bar Starbuck-style) si concretizzasse, la materia prima italiana consisterebbe soprattutto in vini friulani prodotti da miei parenti, per cui partirei con costi inferiori alla media. Deposito a Bangkok, zona del vecchio aeroporto e imitazione dell'enoteca di Vientiane in vari paesi con contatti per forniture di vino italiano ai grandi alberghi. Su Bangkok: al Bobby's, ristorante/pub stile inglese di buon livello zona Silom, ho visto servire ai tavoli bottiglie di rosso nel secchiello del ghiaccio... Voglio dire che la cultura del bere va talora più creata o corretta che incrementata; forse proprio il nome Italia può favorire, partendo in certi casi suppergiù dal nulla.
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