25 gennaio 2009

La cultura del prossimo

Il mio ultimo fondo pubblicato sul Corriere della Valle.

25 gennaio 1959. E’ la data in cui Giovanni XXIII annuncia ai cardinali che essendo investito di «una duplice responsabilità di vescovo di Roma e di Pastore della Chiesa universale» intende proporre, «con umile risolutezza», «la duplice celebrazione di un Sinodo diocesano per l’Urbe e di un Concilio ecumenico per la Chiesa universale». La notizia coglie tutti di sorpresa, desta curiosità, stupore, in qualcuno, perfino, preoccupazione.
Quello che nelle logiche degli uomini era un Papa di transizione pone le basi per costruire la Chiesa non solo di oggi, ma perfino di domani. Parole come dialogo, responsabilità, comunità, solidarietà, che illuminano qua e là molti documenti conciliari, appaiono datate soltanto per la nostra incapacità di leggerle all’interno di questo nuovo scenario, che – è vero – si presenta purtroppo talvolta confuso, fra eventi epocali e rovinose sconfitte della dignità umana.
Eppure oggi che gli Stati Uniti da poco più di ventiquattro ore hanno visto insediarsi ufficialmente il loro primo presidente afro-americano, cancellando per sempre l’ombra del razzismo; oggi che la striscia di Gaza è ancora una ferita aperta per palestinesi e israeliani, e la pace costituisce l’unico diktat da appoggiare incondizionatamente; oggi che il mondo occidentale ha paura di scoprirsi più povero e a farne le spese potrebbero essere quei paesi che poveri lo sono sempre stati. Ebbene proprio oggi mi ritorna in mente l’immagine di quell’uomo semplice (sarebbe meglio dire essenziale) che fu Papa Giovanni XXIII. A lui dobbiamo oltre che l’intuizione conciliare anche la «Pacem in terris», l’enciclica grazie alla quale seppe dare alla diplomazia mondiale il giusto punto di appoggio per uscire dalle secche dello scontro ideologico delle due superpotenze del tempo. Giovanni XXIII sapeva trovare parole che uniscono, che toccano gli animi. Concludendo la sua allocuzione chiese «una parola intima e confidente» per avere suggerimenti invocando l’intercessione di Maria e di «tutti i santi della Curia celeste». Tutto ciò a «edificazione e letizia di tutto il popolo cristiano», rinnovando l’invito «ai fedeli delle Comunità separate a seguirci anch’esse amabilmente in questa ricerca di unità e di grazia, a cui tante anime anelano da tutti i punti della terra». Quando leggo che noi cristiani dobbiamo essere più visibili (ad esempio nei confronti della rete delle reti, sulla strade del cosiddetto Web 2.0 di cui tanto si parla in questi giorni) penso proprio a questo: più visibili nell’umiltà di un amore in grado di abbracciare il mondo. Ma questa sarebbe pura retorica se non aggiungessi che per costruire davvero la pace si deve prima di tutto partire dalla mura di casa propria. Dal nucleo famigliare, vero centro propulsore di una cultura del prossimo di cui tutti avvertiamo il bisogno.

1 commenti:

Anonimo ha detto...

Questo scritto , pur ineccepibile , pare ... intrinsecamente freddo verso un presente in cui Papa Ratzinger riabilita i lefebvriani . Personalmente ascrivo tale riabilitazione ( e monsignor Lefebvre non va considerato un puro accidente , semmai una punta di iceberg: i cardinali Ottaviani e Bacci curarono la prefazione dell'opera in cui Lefevre espose la sua visione ) non alle differenti personalità di Roncalli e Ratzinger , bensì alle circostanze storiche differenti in cui si collocano Concilio e riabilitazione . Il primo sottolineava un'apertura nel nome di quell'universalità che oggi è necessaria contestualmente alla riaffermazione di valori che non devono essere vittime di secolarizzazioni e relativismi : in questa ottica appare giusto il non cavalcare contrapposizioni con chi si richiama in modo più rigido alla tradizione . Ci troviamo in una fase storica in cui sinistri non credenti di varia collocazione stilano pagelle sul percorso della Chiesa , ben visto se rinnegasse se stessa ...

 

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