Il decreto in oggetto
prevede – in breve – che se
il grano duro è coltivato almeno per il 50% in un solo Paese, come
ad esempio l'Italia, si potrà usare la dicitura: "Italia e
altri Paesi Ue e/o non Ue",
prevedendo inoltre una categoria cento per cento che contenga,
naturalmente, solo grano nazionale.
Non ho fatto in tempo, con
un mio recente scritto, a segnalare come sulla LA STAMPA del 20
luglio Paolo Barilla dichiarasse che “«a scommessa della pasta
buona e sostenibile inizia dal grano duro italiano» che lo
stesso Barilla, in qualità di vice presidente della associazione dei
pastai, messo alla prova dei fatti – un decreto che quando sarà in
vigore non permetterà più elusioni della norma – si smentisce,
dichiarando il decreto «un autogol per il Paese».
L’Italia è il
principale produttore europeo e secondo mondiale di grano duro
destinato alla pasta, con 4,3 milioni di tonnellate su una superficie
coltivata pari a circa 1,3 milioni di ettari che si concentra
nell’Italia meridionale, soprattutto in Puglia e Sicilia che da
sole rappresentano circa il 40% della produzione nazionale. Se
per l’esperto in materia il ricorso non rappresenta una grossa
sorpresa (Federalimentare ha già scritto più volte alla Commissione
Europea contro lo Stato Italiano che ha promulgato la legge 204/2004
sulla trasparenza alimentare, legge che Coldiretti ha promosso con la
raccolta di oltre 1,5 milioni di firme autenticate) il cittadino
comune e il consumatore si chiederanno il perché di tale ricorso. I
pastai sostengono che il grano nazionale non sia sufficiente al
fabbisogno, che il grano Canadese contiene “solo tacce” di
glifosato (prodotto vietato in Italia) e che il grano Italiano non è
di qualità.
Le ragioni dei pastai sembrano, in effetti, pretestuose e all’interno stesso del settore, i mugnai più piccoli, che non aderiscono alla associazione, sono ben felici del decreto; sono abituati a produrre con grano nazionale e sono entusiasti di “doverlo” scrivere sulle confezioni, intravedendo così, nuove opportunità di mercato. Le “multinazionali” della pasta, invece, con produzioni che coprono ampie fette di mercato mondiale, non hanno - e non avranno mai – la possibilità di reperire tutta la materia prima in Italia, ma dovranno anche smettere di reperirla “tutta” all’estero. In effetti, viene da dire, qual è il problema: se l’industria sostiene che è la capacità e la bravura dei pastai a fare la pasta italiana e non l’origine della materia prima diventa assolutamente irrilevante scrivere sulle confezioni l’origine della materia prima e allora, un motivo in più per poterlo scrivere!
Le ragioni dei pastai sembrano, in effetti, pretestuose e all’interno stesso del settore, i mugnai più piccoli, che non aderiscono alla associazione, sono ben felici del decreto; sono abituati a produrre con grano nazionale e sono entusiasti di “doverlo” scrivere sulle confezioni, intravedendo così, nuove opportunità di mercato. Le “multinazionali” della pasta, invece, con produzioni che coprono ampie fette di mercato mondiale, non hanno - e non avranno mai – la possibilità di reperire tutta la materia prima in Italia, ma dovranno anche smettere di reperirla “tutta” all’estero. In effetti, viene da dire, qual è il problema: se l’industria sostiene che è la capacità e la bravura dei pastai a fare la pasta italiana e non l’origine della materia prima diventa assolutamente irrilevante scrivere sulle confezioni l’origine della materia prima e allora, un motivo in più per poterlo scrivere!
La trasparenza in etichetta,
è provato dai provvedimenti già in atto, in ultimo quello su latte
e derivati, ha aumentato la resa per i produttori senza peraltro che
i prezzi aumentino al consumo. Gli agricoltori, come denunciato al
recente G7, ricavano solo 15 centesimi per ogni euro speso dal
consumatore. Oggi un quintale di grano duro viene pagato, al
produttore, circa il valore di due pizze e dalla valorizzazione del
grano nazionale si attende una parallela valorizzazione del mercato.
Come noto i settori
che trainano l’economia nazionale (le tre “F”, Food, Fashion, &
Furniture, che si traducono nelle tre “A” Alimentazione,
Abbigliamento, & Arredamento) sono la bandiera del Made in Italy
e il consumatore - anche all’estero - si sta abituando a
cercare la scritta “Made in Italy” su qualunque cosa, dalle
caffettiere alle scarpe; il mondo intero ci riconosce il valore
aggiunto del marchio ma assistiamo, ad un fenomeno tutto italiano nel
tentare di salvaguardare rendite di posizione a danno dei produttori
e dei consumatori, forse dimenticando che le “Reputazioni” si
costruiscono in anni e si distruggono in attimi.
Ezio Mossoni
0 commenti:
Posta un commento