20 febbraio 2019

Riflessioni sul modello agricolo valdostano (#mossoni07)

Articolo già pubblicato sul Corriere della Valle del 24 gennaio. Ezio Mossoni, già direttore di Coldiretti scrive da diverso tempo per il Corriere. Buona lettura.

Dal documento di economia e finanza regionale per il prossimo triennio emerge un forte segnale per il rilancio del settore agricolo attraverso misure mirate e anche attraverso la riorganizzazione dell’Assessorato.
Bene, bene, molto bene, il passaggio è vitale per il settore agricolo e i nostri nuovi (?) Amministratori dovranno mettere in campo competenze – che certo non mancano – ma soprattutto risorse e qui, permettetemi, (sarò felice di sbagliarmi) in tempi di ristrettezze, qualche piccolo dubbio mi sorge.
Affronto il problema attraverso una tesi che mi è cara e che ho maturato in tanti anni di attività nel settore. Grazie al mio lavoro ho avuto l’opportunità di uscire dalla nostra Regione e vedere anche realtà diverse. Credo che, anche senza tali esperienze, chiunque abbia attraversato la pianura padana in automobile abbia potuto notare grandi stalle in capannoni prefabbricati e, vicino, altrettanti grandi silos pieni di mangime. I campi, a fianco, coltivati con seminativi, mais, grano, frutteti o altro. E’ il sistema agricolo economico, quello che permette di vivere (a volte solo sopravvivere). Spero che vedendo questo sistema qualcuno lo abbia paragonato a quello che io definisco “Il Modello Agricolo” valdostano che niente ha a che vedere con tale organizzazione compresi, purtroppo, i ricavi economici. Anzi, giungo a dire – in maniera provocatoria e soprattutto per l’allevamento - che fare agricoltura in Valle d’Aosta sia antieconomico, i costi sono più alti dei ricavi e non è possibile fare impresa sperando, legittimamente, di mantenere la propria famiglia .

Allevare capi di razza autoctona significa produrre molto, molto meno rispetto alle tradizionali razze vocate alla produzione di latte; prendere terreni in affitto, lavorare per la fienagione con i relativi costi di manodopera e meccanizzazione non ha senso in confronto ai costi dei mangimi insilati e figuriamoci se poi, dopo tanto lavoro, una settimana di pioggia manda il raccolto a quel paese ! Tutte queste operazioni erano legittime e logiche per l’agricoltura dell’autosussistenza, dalla quale siamo – per fortuna – usciti da tempo.

E l’alpeggio? Peggio che peggio. Orari assurdi, lavoro estremo in condizioni estreme, costi del personale, di trasporto, e di affitto. Le strutture poi, non ne parliamo. I costi di realizzazione di una stalla ben inserita nell’ambiente (vuol dire pietra a vista, finiture in legno, tetti in lose) non hanno confronto con i costi del prefabbricato in cemento.

Per generare più reddito l’agricoltura dovrebbe, quindi, spostare il “modello” verso l’organizzazione della pianura ma significherebbe anche valutare - da parte della società intera e non solo dal settore agricolo - alcune contropartite. La razza autoctona non vuole solo dire “affezione” ma anche biodiversità e, soprattutto vuol dire Fontina, ad essa legata indissolubilmente. Ne vogliamo (e possiamo) fare a meno? Sfalciare i prati vuol dire mantenimento del territorio, lotta al dissesto idrogeologico e, soprattutto, ambiente. Una regione come la nostra può fare a meno dei prati in fiore per lasciare spazio ad incolti ingialliti? E il mantenimento dell’ambiente in alpeggio attraverso il presidio diretto e la viabilità rurale, e di nuovo la produzione di qualità della Fontina,.... ne possiamo fare a meno? Possiamo fare a meno di quella che A.Bétemps chiama “la montagna umanizzata”? E in questa stessa montagna opere edilizie rurali in piena integrazione con l’ambiente alpino sono, o no, meglio del cemento prestampato?

Questa è la storia non solo dell’agricoltura valdostana ma è la storia della Valle d’Aosta. Appunto un “Modello agricolo” molto sociale e poco economico; è, però, un anello della catena indispensabile al mantenimento del sistema complessivo Valle d’Aosta che è fondato sul territorio, sull’ambiente, sul turismo, su commercio e artigianato di prossimità, un sistema basato sulla produzione di qualità e non di quantità, per evidenti ragioni di dimensione. Non dimentico l’industria anch’essa votata sempre più alla qualità. Ma mentre tutti i settori, sia pur tra mille difficoltà, possono lavorare per fare impresa, l’agricoltura - che non è più, come detto, quella dell’autoconsumo - si deve confrontare con il mercato e non ha possibilità di fare reddito quando le condizioni generali operative lo impediscono e, soprattutto, vede all’orizzonte delle alternative, semplicemente “spostandosi” verso l’organizzazione
della pianura.

I nostri politici conoscono bene la questione (almeno lo spero!) in quanto la politica stessa, ben
conscia di questa situazione, è stata, nel tempo, vicina al settore agricolo trovando sistemi di  integrazione del reddito non oggettivamente raggiungibile. Le recenti difficoltà del settore primario
sono legate proprio alla difficoltà di reperire queste risorse che la “politica” ha cercato di spostare dalle casse Regionali a quelle Statali e Comunitarie. Se si vogliono mantenere gli agricoltori e gli allevatori in montagna, e con la stessa struttura operativa, servono le risorse (puntuali !) per continuare a integrarne il reddito. Se questo non accadrà piano piano, ma inesorabilmente, ci si avvicinerà sempre più al modello della pianura, con le relative conseguenze, e per tutti. Quando vediamo dei terreni incolti sono l’effetto, non la causa.

Ezio Mossoni (già pubblicato sul Corriere della Valle del 24 gennaio)

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