5 luglio 2017

#Agricoltura: I Numeri e la Crisi (#mossoni 04)


I numeri sono una delle poche cose certe che ci sono rimaste, i numeri devono, però, essere letti nel contesto a cui si riferiscono, e questo necessita la consapevolezza  del “contesto”, cosa non sempre facile. Ho sempre diffidato delle classifiche dei quotidiani economici sulla qualità della vita o sui processi economici delle varie realtà, provinciali o regionali che siano, (rievocando, mi rendo conto, il famoso “pollo” che ogni italiano si mangerebbe secondo Trilussa) proprio perché i numeri sono “aridi” se non analizzati con cura e conoscenze.
La Fédération des Cooperatives, nella sua assemblea annuale ha evidenziato – risultati contabili – come il settore agricolo  sia, in assoluto, il più dinamico, (34 cooperative, 1.429 soci e 190 addetti) con un fatturato che ha registrato un clamoroso più 14,5% nel settore zootecnico – dove il prezzo medio del latte alla stalla si è attestato a 49 centesimi/chilo – il settore vitivinicolo migliora del 6% mentre quello frutticolo ha risentito di alcuni problemi strutturali ma ha fatto registrare un più 0,20%. Alla luce di tali dati, come detto, in assoluto i più performanti nel settore della cooperazione, ci si potrebbe chiedere i perché della crisi che, invece, insegue senza tregua il settore primario.
Mi rendo conto che è bene – riferendoci al famoso “contesto” – ricordare che il settore agricolo Valdostano è avulso dalla organizzazione agricola del resto Paese; abbiamo privilegiato – da sempre – la tutela del territorio, la qualità anziché la quantità, il prodotto Fontina DOP,  le razze bovine e ovicaprine  autoctone, la DOP unica vitivinicola. Ma la fienagione “costa” molto di più che alimentare il bestiame con insilati, organizzare l’alpeggio costa molto più che tenere i capi in pianura, fare Fontina DOP costa il doppio ( il disciplinare prevede due lavorazioni al giorno) di altri pur famosi formaggi, mantenere capi di razza Valdostana costa uguale – o forse più – di altre razze , ma la produzione di latte è nettamente minore, e così via.
L’INEA - Istituto Nazionale di Economia Agraria (ora Crea n.d.a.) con un proprio quaderno – facilmente reperibile in internet – a firma Patrizia Borsotto, analizza il costo di produzione del latte in Valle d’Aosta e, con una attenta analisi eseguita suddividendo varie tipologie aziendali, sia pure con dati non recentissimi, stabilisce che il miglior allevatore, nelle migliori condizioni, sostiene un costo di produzione del latte di 62 centesimi al chilo, arrivando, a seconda dei casi, fino a punte di 79 centesimi.  Ammesso che tutti siano bravissimi, 49 centesimi di valore del latte alla stalla evidenziano ancora un meno 13 centesimi tra ricavi e costi. Ogni allevatore, in sintesi, perde 13 centesimi ogni chilo di latte che munge ! La Fontina non fa eccezione; l’ultimo prezzo fissato  ( a cui si dovranno aggiungere/togliere i premi qualità) è di 7.08 euro/chilo per la produzione di alpeggio e di 6,87 euro/chilo per la produzione di latteria ( prezzi IVA compresa).  Dagli annali scopriamo che, nel 1996, il prezzo era di 12.000 lire per l’alpeggio e 11.600 lire per la latteria. In venti anni il valore è aumentato poco più del 10%, mentre l’ISTAT stima, nel settore latte, un aumento dei costi – nello stesso periodo – del 32%. Un operaio agricolo, in alpeggio, costa,  circa 80 euro lorde al giorno: a 49 centesimi sono, più o meno, oltre  150  litri di latte da destinare per pagare la giornata del dipendente!

Ecco spiegata la crisi del comparto agricolo.  Il lettore attento si chiederà, allora, come ha fatto a resistere il settore, perché alla luce di questi dati non è possibile sopravvivere. Da una parte viene spiegato e ampiamente giustificato il ricorso agli aiuti, dall’altra l’agricoltore è, forse, l’unico “imprenditore” che (necessità virtù) non conta mai l’apporto della propria forza lavoro, si lavora perché si deve, semplicemente le proprie ore non si contano e, di conseguenza, non si dovranno remunerare!
Ezio Mossoni

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