Questa
settimana proponiamo
l’intervista a
Jean
Paul Chadel,
Presidente
dell’Arev, l’associazione degli allevatori valdostani.
In vista della tornata elettorale avevate
presentato un documento molto dettagliato sul fare zootecnia in Valle
d’Aosta come è nato questo testo.
E’ nato dall’idea mia personale condivisa
con il direttivo che, pur sapendo noi allevatori e noi rappresentanti
degli allevatori che spetta alla politica gestire il bilancio in
toto, chiediamo e crediamo che sia logico far sì che siano i
rappresentanti delle associazioni a proporre come investire nel
settore che rappresentano perché sono quelli che lo conoscono
meglio.
Analizziamolo nel dettaglio. Prima di tutto
ponete il tema della burocrazia e dell’efficienza amministrativa…
E’ una vita che non soltanto in Valle d’Aosta
ma in tutta Italia si sente parlare della burocrazia come di un
mostro alieno impossibile da combattere e in parte è vero perché la
burocrazia nasce a Bruxelles, poi prosegue a Roma per poi arrivare in
Valle d’Aosta e ognuno ci mette un pezzo in più e complica
ulteriormente qualcosa che è già complesso di suo. E le strade sono
due: laddove è possibile, dove le norme regionali possono
semplificare le cose, chiediamo alla politica un intervento e abbiamo
una serie di proposte amplissime, che vanno dall’agriturismo ai
fabbricati rurali a mille altre cose che si possono fare a livello
regionale; in altre situazioni però ci troviamo di fronte a un
principio gerarchico per cui la Valle d’Aosta non può andare
contro a direttive comunitarie o norme nazionali e lì l’unica
strada possibile è quella di delegare. Esiste anche all’interno
del PSR ma non è stata sfruttata una misura che permette di ottenere
finanziamenti da Bruxelles perché ci sia qualcuno che noi possiamo
delegare, come agricoltori e allevatori, alla gestione di questa
parte burocratica. L’allevatore deve fare l’allevatore, ma deve
potersi permettere di pagare qualcuno che vaghi per la giungla di
uffici che dobbiamo affrontare al posto nostro.
Ponete
poi quello che, a mio avviso, è un tema nuovo quello della
concertazione e della condivisione di cosa si tratta?
Partiamo
dagli errori del passato. Il PSR attuale, che sta evidenziando
un’infinità di malfunzionamenti, di complessità burocratiche che
lo rendono difficile da attuare oltre a vanificare tante volte gli
interventi in quanto dispersi in mille piccole misure, è frutto di
una concertazione. Coldiretti, Cia e la stessa Arev tanti anni fa
presentarono un documento con una serie di proposte, in primo luogo
ai tecnici dell’Assessorato all’Agricoltura e che poi avrebbero
dovuto essere sottoposte a Bruxelles, ma questo non si è verificato.
Queste proposte non sono state prese in considerazione e il piano è
stato approvato e presentato alle parti sociali così come è stato
deciso in funzione delle scelte dei dirigenti, non delle parti
sociali, degli allevatori, non degli agricoltori. Questo deve
cambiare.
Sulla
programmazione dello sviluppo rurale passata siete molto critici...
Un
esempio?
Come
potremmo
non
essere critici sono arrivati 20 milioni su 140. Non voglio essere
polemico, ma resto dell’idea che il problema politico sia stato nel
momento della stesura del piano. Allo stato attuale la politica ha
responsabilità limitatissime. E’ più un problema dirigenziale. Io
penso che con le competenze che abbiamo tra i tecnici all’interno
della Regione un minimo di lungimiranza ci doveva essere e quindi
capire che questo sistema non poteva funzionare non era così
fantascientifico. Il problema è che di fondo chi deve pagare le
conseguenze di questa inefficienza siamo sempre e soltanto noi. Io
capisco che ci sia a volte la contrapposizione tra due punti di vista
forse opposti. Noi agricoltori, anche nella nostra ignoranza, me ne
rendo conto io per primo, abbiamo pretese che poi si scontrano con
una serie di norme, di procedure, e poi vorremmo tutto più semplice.
Però dall’altra parte tuta la parte burocratica - che vede
all’interno dirigenti, funzionari e parte politica – esiste
perché esistiamo noi, non il contrario. I finanziamenti che arrivano
da Bruxelles giustificano l’esistenza stessa di tutta una serie di
persone in Assessorato. Se
non arrivano i fondi all’agricoltura che senso hanno questi fondi?
Per il 2020/2026 cosa si deve e anche cosa
non si deve fare?
La parola d’ordine deve essere
semplificazione. Stiamo vedendo quanto cercare di dare un incentivo
puntuale per questo o quel tipo di intervento che l’agricoltore e
l’allevatore svolge sul territorio sia un principio nobile, ma
nella sua applicazione vado poi a prolungare i tempi in modo
esponenziale. Ci sono due assi di agevolazione che possono essere
illustrati. Uno riguarda il premio unico, un aiuto superficie che
spetta a tutti quanti gli agricoltori d’Europa indipendentemente
dal territorio più o meno svantaggiato. In questo la Regione,
l’Assessorato, ha un ruolo marginale. Sono il sindacato, i
patronati, che caricano le domande e le inviano ad Agea l’organismo
pagatore che si trova a Roma presso il Ministero. E questo ha
funzionato bene dove sono state presentate le domande, ma non tutti i
sindacati, per ragioni diverse, le hanno presentate per tutti gli
agricoltori e così buona parte degli agricoltori valdostani oggi si
trovano ad avere un premio che non è paragonabile a quello del loro
vicino di casa che fa lo stesso mestiere. E quindi a livello di
competitività dell’azienda siamo in una situazione disastrosa. Per
quanto riguarda l’altra parte del PSR con tutte le misure che
passano sotto il controllo di Area Vda e sono il frutto di quanto
legiferato dall’Assessorato nella concertazione con Bruxelles siamo
in una situazione ugualmente disastrosa, ma per ragioni diverse in
quanto è la complessità che chiede un controllo ulteriore da parte
degli organismi regionali ad aver bloccato tutto. Perché le regole
che si sono studiate sono molto complesse e tante volte controverse.
Una altro esempio che posso fare sul PSR sono gli investimenti per i
giovani agricoltori dove il sistema di regole è così complesso da
impedire nei tre anni in cui il giovane agricoltore deve fare
l’investimento di avere effettivamente il contributo che gli
spetta. E per dirla in modo molto concreto, se io giovane agricoltore
devo costruire una stalla e ho tre anni di tempo per farlo, ma non ho
la risposta né tantomeno l'erogazione del contribuito prima del
terzo anno come faccio? Ipoteco casa mia per costruire la stalla? Se
ce l’ho la casa da ipotecare...Altrimenti sono finito prima di
iniziare. Certo è che l’allevamento per oltre 50 anni ha dato una
mano a tutta l’economia valdostana. Quando abbiamo investito sui
fabbricati rurali abbiamo investito non sull’agricoltura, ma
sull’edilizia, perché il fabbricato che in Piemonte costruisco con
200mila euro, in Valle d’Aosta lo costruisco con 400mila euro. E’
un dato di fatto che i nostri prodotti devono essere aiutati per
essere competitivi su altri mercati, diversamente costerebbero già
troppo in partenza.
Sulla
valorizzazione dei prodotti avete molto da dire. Il prezzo è un tema
inevitabilmente centrale...
Il
documento era indirizzato alla politica, ma non è soltanto in
funzione della politica in quanto una forte autocritica la dobbiamo
fare. La valorizzazione dei prodotti spetta agli allevatori
attraverso le
proprie
forme organizzate, ma ci sembrava corretto nel documento far sapere
che c’è voglia d aparte degli allevatori di investire sui prodotti
perché si è parlato a lungo di contributi, e noi non vogliamo
assistenzialismo e non è assistenzialismo quello che permette alle
aziende agricole di campare perché il 70% delle entrate sono i
prodotti. La differenza grossa tra incentivo e assistenzialismo è
che il primo va a premiare chi lavora in un certo modo. Se io produco
una buona fontina, un buon formaggio e c’è la mia faccia su quel
prodotto io azienda che lavoro bene avrò un ritorno superiore
rispetto a chi produce un prodotto di qualità
inferiore, niente è più incentivante di questo. Il
contributo purtroppo questo non lo fa. Noi vogliamo quindi slegarci
il più possibile da questa logica. Noi crediamo tantissimo nel
prodotto fontina in quanto risponde perfettamente a quello che i
consumatori chiedono non solo a livello regionale, ma a livello
europeo perché parlare di allevamento di razze in via d’estinzione
che si adattano ad un territorio montano, che vivono in un benessere
che non è neppure paragonabile a quello di altre razze allevate in
pianura che muoiono a cinque anni anziché 15, come può capitare ai
nostri animali, chiuse
in ambienti
che non hanno nulla a
che fare con i nostri alpeggi. Tutto questo è da promuovere e da far
sapere e una forte autocritica va fatta in quanto non abbiamo saputo
valorizzare tutto questo negli anni.
Un
appello per il prossimo Governo
regionale?
Vorremmo
che si investisse di più e si spendesse di meno. Dare i soldi
all’allevamento perché tiri avanti è una strategia che può avere
senso soltanto in un momento di disperazione, di grave crisi, di
difficoltà insormontabile, ma investire significa crearsi un futuro.
Su ogni euro speso per l’agricoltura vorremmo che la parte
importante andasse per la valorizzazione del prodotto in quanto è
quella che dà dignità all’allevatore e gli permette di camminare
sulle sue gambe. Investire non vuol dire dare dei soldi perché ci
facciano pubblicità non sappiamo bene come. Ma mettere dei fondi o
delle competenze affinché il prodotto possa essere conosciuto e
valorizzato di più dentro e fuori la nostra regione. I sistemi per
incentivare la qualità ci sono senza bisogno di risorse esterne e i
sistemi per farci conoscere pure con un investimento di risorse
esterne sicuramente inferiore rispetto ad altre modalità
Un
sogno da
Presidente
dell’Arev
da
realizzare?
Dare
dignità alla categoria. Io vorrei tanto che gli allevatori si
rendessero conto del lavoro che fanno per tutti, non soltanto per se
stessi, e che la Valle d’Aosta anche turisticamente è quella che è
anche grazie a noi. E un po’ di autostima in più ci servirebbe
anche nel prenderci qualche libertà che non ci siamo mai concessi
perché qualunque lavoratore, qualunque imprenditore i frutti del
proprio lavoro li merita, non gli sono regalati, e questa distorsione
mentale è nata proprio da questo sistema di contributi. Ma
l'agricoltore che lavora 10 ore al giorno - e curando gli animali in
un modo che è fuori dal mondo se paragonato all’allevamento
intensivo – si merita qualche cosa in più: un giorno libero ogni
tanto, di poter stare con la propria famiglia, di poter vivere la
montagna che noi stiamo curando, e al momento non è così.
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