14 giugno 2018

Jean Paul Chadel (#Arev): «Chiediamo di dare dignità alla categoria»

Questa settimana proponiamo l’intervista a Jean Paul Chadel, Presidente dell’Arev, l’associazione degli allevatori valdostani.

In vista della tornata elettorale avevate presentato un documento molto dettagliato sul fare zootecnia in Valle d’Aosta come è nato questo testo.
E’ nato dall’idea mia personale condivisa con il direttivo che, pur sapendo noi allevatori e noi rappresentanti degli allevatori che spetta alla politica gestire il bilancio in toto, chiediamo e crediamo che sia logico far sì che siano i rappresentanti delle associazioni a proporre come investire nel settore che rappresentano perché sono quelli che lo conoscono meglio.

Analizziamolo nel dettaglio. Prima di tutto ponete il tema della burocrazia e dell’efficienza amministrativa…
E’ una vita che non soltanto in Valle d’Aosta ma in tutta Italia si sente parlare della burocrazia come di un mostro alieno impossibile da combattere e in parte è vero perché la burocrazia nasce a Bruxelles, poi prosegue a Roma per poi arrivare in Valle d’Aosta e ognuno ci mette un pezzo in più e complica ulteriormente qualcosa che è già complesso di suo. E le strade sono due: laddove è possibile, dove le norme regionali possono semplificare le cose, chiediamo alla politica un intervento e abbiamo una serie di proposte amplissime, che vanno dall’agriturismo ai fabbricati rurali a mille altre cose che si possono fare a livello regionale; in altre situazioni però ci troviamo di fronte a un principio gerarchico per cui la Valle d’Aosta non può andare contro a direttive comunitarie o norme nazionali e lì l’unica strada possibile è quella di delegare. Esiste anche all’interno del PSR ma non è stata sfruttata una misura che permette di ottenere finanziamenti da Bruxelles perché ci sia qualcuno che noi possiamo delegare, come agricoltori e allevatori, alla gestione di questa parte burocratica. L’allevatore deve fare l’allevatore, ma deve potersi permettere di pagare qualcuno che vaghi per la giungla di uffici che dobbiamo affrontare al posto nostro.

Ponete poi quello che, a mio avviso, è un tema nuovo quello della concertazione e della condivisione di cosa si tratta?
Partiamo dagli errori del passato. Il PSR attuale, che sta evidenziando un’infinità di malfunzionamenti, di complessità burocratiche che lo rendono difficile da attuare oltre a vanificare tante volte gli interventi in quanto dispersi in mille piccole misure, è frutto di una concertazione. Coldiretti, Cia e la stessa Arev tanti anni fa presentarono un documento con una serie di proposte, in primo luogo ai tecnici dell’Assessorato all’Agricoltura e che poi avrebbero dovuto essere sottoposte a Bruxelles, ma questo non si è verificato. Queste proposte non sono state prese in considerazione e il piano è stato approvato e presentato alle parti sociali così come è stato deciso in funzione delle scelte dei dirigenti, non delle parti sociali, degli allevatori, non degli agricoltori. Questo deve cambiare.

Sulla programmazione dello sviluppo rurale passata siete molto critici... Un esempio?
Come potremmo non essere critici sono arrivati 20 milioni su 140. Non voglio essere polemico, ma resto dell’idea che il problema politico sia stato nel momento della stesura del piano. Allo stato attuale la politica ha responsabilità limitatissime. E’ più un problema dirigenziale. Io penso che con le competenze che abbiamo tra i tecnici all’interno della Regione un minimo di lungimiranza ci doveva essere e quindi capire che questo sistema non poteva funzionare non era così fantascientifico. Il problema è che di fondo chi deve pagare le conseguenze di questa inefficienza siamo sempre e soltanto noi. Io capisco che ci sia a volte la contrapposizione tra due punti di vista forse opposti. Noi agricoltori, anche nella nostra ignoranza, me ne rendo conto io per primo, abbiamo pretese che poi si scontrano con una serie di norme, di procedure, e poi vorremmo tutto più semplice. Però dall’altra parte tuta la parte burocratica - che vede all’interno dirigenti, funzionari e parte politica – esiste perché esistiamo noi, non il contrario. I finanziamenti che arrivano da Bruxelles giustificano l’esistenza stessa di tutta una serie di persone in Assessorato. Se non arrivano i fondi all’agricoltura che senso hanno questi fondi?

Per il 2020/2026 cosa si deve e anche cosa non si deve fare?
La parola d’ordine deve essere semplificazione. Stiamo vedendo quanto cercare di dare un incentivo puntuale per questo o quel tipo di intervento che l’agricoltore e l’allevatore svolge sul territorio sia un principio nobile, ma nella sua applicazione vado poi a prolungare i tempi in modo esponenziale. Ci sono due assi di agevolazione che possono essere illustrati. Uno riguarda il premio unico, un aiuto superficie che spetta a tutti quanti gli agricoltori d’Europa indipendentemente dal territorio più o meno svantaggiato. In questo la Regione, l’Assessorato, ha un ruolo marginale. Sono il sindacato, i patronati, che caricano le domande e le inviano ad Agea l’organismo pagatore che si trova a Roma presso il Ministero. E questo ha funzionato bene dove sono state presentate le domande, ma non tutti i sindacati, per ragioni diverse, le hanno presentate per tutti gli agricoltori e così buona parte degli agricoltori valdostani oggi si trovano ad avere un premio che non è paragonabile a quello del loro vicino di casa che fa lo stesso mestiere. E quindi a livello di competitività dell’azienda siamo in una situazione disastrosa. Per quanto riguarda l’altra parte del PSR con tutte le misure che passano sotto il controllo di Area Vda e sono il frutto di quanto legiferato dall’Assessorato nella concertazione con Bruxelles siamo in una situazione ugualmente disastrosa, ma per ragioni diverse in quanto è la complessità che chiede un controllo ulteriore da parte degli organismi regionali ad aver bloccato tutto. Perché le regole che si sono studiate sono molto complesse e tante volte controverse. Una altro esempio che posso fare sul PSR sono gli investimenti per i giovani agricoltori dove il sistema di regole è così complesso da impedire nei tre anni in cui il giovane agricoltore deve fare l’investimento di avere effettivamente il contributo che gli spetta. E per dirla in modo molto concreto, se io giovane agricoltore devo costruire una stalla e ho tre anni di tempo per farlo, ma non ho la risposta né tantomeno l'erogazione del contribuito prima del terzo anno come faccio? Ipoteco casa mia per costruire la stalla? Se ce l’ho la casa da ipotecare...Altrimenti sono finito prima di iniziare. Certo è che l’allevamento per oltre 50 anni ha dato una mano a tutta l’economia valdostana. Quando abbiamo investito sui fabbricati rurali abbiamo investito non sull’agricoltura, ma sull’edilizia, perché il fabbricato che in Piemonte costruisco con 200mila euro, in Valle d’Aosta lo costruisco con 400mila euro. E’ un dato di fatto che i nostri prodotti devono essere aiutati per essere competitivi su altri mercati, diversamente costerebbero già troppo in partenza.

Sulla valorizzazione dei prodotti avete molto da dire. Il prezzo è un tema inevitabilmente centrale...
Il documento era indirizzato alla politica, ma non è soltanto in funzione della politica in quanto una forte autocritica la dobbiamo fare. La valorizzazione dei prodotti spetta agli allevatori attraverso le proprie forme organizzate, ma ci sembrava corretto nel documento far sapere che c’è voglia d aparte degli allevatori di investire sui prodotti perché si è parlato a lungo di contributi, e noi non vogliamo assistenzialismo e non è assistenzialismo quello che permette alle aziende agricole di campare perché il 70% delle entrate sono i prodotti. La differenza grossa tra incentivo e assistenzialismo è che il primo va a premiare chi lavora in un certo modo. Se io produco una buona fontina, un buon formaggio e c’è la mia faccia su quel prodotto io azienda che lavoro bene avrò un ritorno superiore rispetto a chi produce un prodotto di qualità inferiore, niente è più incentivante di questo. Il contributo purtroppo questo non lo fa. Noi vogliamo quindi slegarci il più possibile da questa logica. Noi crediamo tantissimo nel prodotto fontina in quanto risponde perfettamente a quello che i consumatori chiedono non solo a livello regionale, ma a livello europeo perché parlare di allevamento di razze in via d’estinzione che si adattano ad un territorio montano, che vivono in un benessere che non è neppure paragonabile a quello di altre razze allevate in pianura che muoiono a cinque anni anziché 15, come può capitare ai nostri animali, chiuse in ambienti che non hanno nulla a che fare con i nostri alpeggi. Tutto questo è da promuovere e da far sapere e una forte autocritica va fatta in quanto non abbiamo saputo valorizzare tutto questo negli anni.

Un appello per il prossimo Governo regionale?
Vorremmo che si investisse di più e si spendesse di meno. Dare i soldi all’allevamento perché tiri avanti è una strategia che può avere senso soltanto in un momento di disperazione, di grave crisi, di difficoltà insormontabile, ma investire significa crearsi un futuro. Su ogni euro speso per l’agricoltura vorremmo che la parte importante andasse per la valorizzazione del prodotto in quanto è quella che dà dignità all’allevatore e gli permette di camminare sulle sue gambe. Investire non vuol dire dare dei soldi perché ci facciano pubblicità non sappiamo bene come. Ma mettere dei fondi o delle competenze affinché il prodotto possa essere conosciuto e valorizzato di più dentro e fuori la nostra regione. I sistemi per incentivare la qualità ci sono senza bisogno di risorse esterne e i sistemi per farci conoscere pure con un investimento di risorse esterne sicuramente inferiore rispetto ad altre modalità

Un sogno da Presidente dell’Arev da realizzare?
Dare dignità alla categoria. Io vorrei tanto che gli allevatori si rendessero conto del lavoro che fanno per tutti, non soltanto per se stessi, e che la Valle d’Aosta anche turisticamente è quella che è anche grazie a noi. E un po’ di autostima in più ci servirebbe anche nel prenderci qualche libertà che non ci siamo mai concessi perché qualunque lavoratore, qualunque imprenditore i frutti del proprio lavoro li merita, non gli sono regalati, e questa distorsione mentale è nata proprio da questo sistema di contributi. Ma l'agricoltore che lavora 10 ore al giorno - e curando gli animali in un modo che è fuori dal mondo se paragonato all’allevamento intensivo – si merita qualche cosa in più: un giorno libero ogni tanto, di poter stare con la propria famiglia, di poter vivere la montagna che noi stiamo curando, e al momento non è così.



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