Questo testo è stato pubblicato sul Corriere della Valle della scorsa settimana.
L’Economia è stata la grande protagonista della terza conferenza che giovedì scorso ha concluso il ciclo di incontri, organizzato dalla Diocesi di Aosta, di «
Fede e Scienza», dedicati alla conoscenza e all'approfondimento dell'esortazione apostolica di papa Francesco Evangelii Gaudium, in particolare del quarto capitolo "La dimensione sociale del l'evangelizzazione". Titolo dell’appuntamento al De la Ville: «
L'economia di Francesco e le sfide dell'oggi».
Relatore Prof. Luigino BRUNI, Professore ordinario di economia politica all’ Università LUMSA di Roma. Economia che «
troppo spesso – come ha detto introducendo l’ospite il Vescovo di Aosta,
Mons. Franco Lovignana - consideriamo come un campo a lato del Vangelo tanto è vero che è spesso assente dalla catechesi». E proprio per evidenziarne la centralità il Vescovo ha citato un passaggio
dell’Evangelii Gaudium dove Papa Francesco scrive «
dobbiamo convincerci che la carità è il rapporto non soltanto delle micro relazioni, rapporti amicali, familiari, di piccolo gruppo, ma anche delle macro-relazioni, rapporti sociali, economici, politici. E’ indispensabile che i governanti e il potere finanziario alzino lo sguardo e amplino le loro prospettive. Che facciano in modo che ci sia un lavoro degno, istruzione, assistenza sanitaria per tutti. E perché non ricorrere a Dio affinché ispiri i loro piani? Sono convinto che a partire da un’apertura alla trascendenza potrebbe formarsi una nuova mentalità politica ed economica che aiuterebbe a superare la dicotomia assoluta tra l’economia e il bene comune sociale».
Tre premesse
Bruni, fra l’altro coordinatore della Commissione internazionale di Comunione, è partito da tre premesse per inquadrare l’esortazione del Papa che per il professore consiste prima di tutto in uno stimolo che il Pontefice dà anche al mondo degli economisti «
in quanto il Papa in alcuni punti tocca temi di teoria economica». «
La prima premessa – ha proseguito Bruni –
è dunque che l’economia è importante per i cristiani. Non è un caso. Già nel paragrafo 2 si parla di consumo. E io non posso che gioire questa scelta. Senza economia non si fa bene comune. E in questi tempi in cui c’è molta crisi economica, c’è pure una giusta diffidenza verso l’economia, non dobbiamo fare l’errore di immagine che ci possa essere una buona società senza una buona economia e senza una buona finanza. Oggi, come ieri, l’economia è fondamentale per il bene comune. Senza una prassi economica diversa i cristiani non possono cambiare l’economia». La seconda premessa è che Papa Francesco «usa la povertà come una prospettiva sul mondo. Guarda il mondo dalla prospettiva di Lazzaro e non del ricco Epulone. La povertà è un giudizio sul mondo, non è semplicemente un problema per le persone che sono sotto una determinata soglia di reddito. Se noi oggi vogliamo capire il mondo dobbiamo guardare i poveri. Sotto il tavolo dove sta Lazzaro vedi dimensioni che non vedi da sopra».
Il Papa per Bruni utilizza la categoria della povertà per dire la sua sul capitalismo. «La povertà – prosegue il professore - è il centro del patto sociale. Se vuoi capire una società a che livello è di bene comune guarda come tratta i poveri. Ecco perché oggi considero Papa Francesco il principale critico del capitalismo e dice che deve trasformarsi in qualcos’altro in quanto produce esclusione, crea vinti». L’ultima premessa è che dietro a tutta l’esortazione c’è la questione antropologica, la grande domanda: «la persona che cos’è?». E Papa Francesco ha un’idea molto chiara di cosa sia l’essere umano. «Nel primo capitolo del Genesi quando Dio crea l’uomo dice che è “cosa molto buona”, mentre prima diceva soltanto cosa buona. Quel molto vuol dire quasi tutto. Cioè che per quanto possa essere bella la Valle d’Aosta, è meno bella di Maria che vive come barbona alla Stazione Termini. C’è cioè nell’essere umano una bellezza che supera tutte le bellezze del creato. C’è una bontà dell’essere umano che è più grande dei vizi, delle malattie, dei problemi. Caino arriva dopo l’Adam, nel quarto capitolo, dove per la prima volta compare la parola peccato, e non uccide questa immensa vocazione che c’è. Anche l’autore biblico se avesse guardato il suo tempo avrebbe dovuto partire da Caino eppure non lo fa. Di qui anche lo sguardo generoso e buono del magistero di questo Papa sull’uomo. E anche noi siamo chiamati ad avere questo sguardo sul mondo. Soltanto così è possibile un’economia diversa, di comunione, sociale. E’ possibile il bene comune perché c’è questa visione biblica. Altrimenti saremmo destinati ad un mondo in mano agli interessi e alle cattiverie». Per Bruni il cristiano deve guardare al mondo in maniera più positiva. «La prima cura è lo sguardo in quanto c’è un cinismo, uno scetticismo civile in Italia che è spaventoso. Invece di guardare al mio vicino come ad un alleato per il bene comune penso a lui come ad un evasore. Questo significa declino dei popoli. In un ‘Italia che soffre per un eccessivo pessimismo il cristiano dice che si può sperare, che c’è tanta bellezza nel mondo».
L’esortazione
Bruni affronta l’esortazione a partire dal tema della carità. «Una carità che non è un fatto privato, ma è capace di cambiare le relazioni sociali, politiche ed economiche è un concetto fondamentale». Ma che cosa è carità? «Caritas è una parola latina che è la traduzione di due parole greche. Non solo di agape, ma pure di Karis. Nel mondo greco l’amore poteva essere detto in due modi: eros e philia. L’eros era una reciprocità diretta, biunivoca, esclusiva, dove l’altro viene amato perché ci colma una indigenza, ci sazia, riaccendendolo, un desiderio vitale. Nella philia greca (che assomiglia a ciò che oggi chiamiamo amicizia), la reciprocità è più articolata: si tollera la mancata risposta dell’altro, non si fanno sempre i conti di dare e di avere, e si può perdonare molte volte. I cristiani devono esprimersi in greco ma l’amore che avevano sperimentato con Gesù non poteva essere espresso attraverso philia e eros in quanto non esprimevano l’amore per il nemico». Questa nuova parola fu agape, non del tutto inedita nel vocabolario greco, ma nuovi furono l’uso e il significato che le attribuirono i cristiani. Ma poi nacque il problema di tradurla in latino. «E la scelta – continua Bruni - cadde sulla parola charitas, che nei primi tempi era scritta con l’acca, una lettera tutt’altro che muta, perché diceva molte cose. Innanzitutto che quella charitas non era né amor né amicitia, era qualcos’altro. Poi che quella charitas non era più la caritas dei mercanti romani, che la usavano per esprimere il valore dei beni (ciò che costa molto, che è “caro”). Ma quell’acca voleva anche ricordare che charitas rimandava anche ad una altra grande parola greca:charis, grazia, gratuità. Non c’è agape senza charis, né charis senza agape. Una dimensione dell’amore che ti porta oltre le equivalenze, oltre la condizionalità. Il problema grande dell’amore umano è che la gente ama se è riamata».
Così la philia può perdonare fino a sette volte, l’agape fino a settanta volte sette; la philia dona la tunica, l’agape anche il mantello; la philia fa un miglio con l’amico, l’agape due, e anche col non–amico. L’eros sopporta, spera, copre poco; la philia copre, sopporta, spera molto; l’agape spera, copre e sopporta tutto. «Eppure gli esseri umani – aggiunge Bruni - sono capaci di atti più grandi di questo in quanto sono ad immagine di Dio e sono capaci di atti senza reciprocità. Di andare avanti da soli. Sono quelli che in contesti di illegalità pagano le tasse. Sanno che sono gli unici ma lo fanno lo stesso. La forma d’amore dell’agape è anche una grande forza di azione e di cambiamento economico e civile, capace di spezzare le trappole di povertà. La carità è dunque una forza straordinaria».
La cultura idolatrica
Bruni cita Papa Francesco quando al secondo capitolo dell’esortazione scrive “questa civiltà ha posto il consumo al centro e ha subordinato tutte le altre dimensioni della vita al consumo”. «Ed è verissimo – aggiunge –. Appena arrivi ad Aosta che cosa vedi? I centri commerciali. Ciò che salta all’occhio oggi è il consumo non è il lavoro. Prima non era così. L’economista Federico Caffè diceva che bisognava far iniziare i corsi di economia non con il consumo ma con la produzione. Far vedere dove nasce il valore. Poi questo valore viene distribuito. Il punto di partenza è come nasce il reddito, come si crea ricchezza. Invece tutta l’enfasi della cultura contemporanea è sul consumo. Tende a creare nei giovani l’idea che ci possa essere consumo senza lavoro. Il bombardamento è pubblicitario è tale che in qualche i soldi da qualche parte devono arrivare».
Di qui l’idea che la nostra società stia vivendo dentro ad una cultura idolatrica, un concetto ripreso molte volte dal Papa. «per capire meglio questo – spiega Bruni – si deve leggere il libro dell’Esodo. La grande fatica che ha fatto il popolo di Israele è stata quella di dire il nostro Dio non è un idolo. E’ questa la nostra grande tentazione, non tanto l’abbandono di Dio per un idolo, quanto il far diventare Dio il vitello d’oro. Se avviene questo non c’è più conversione. Ti accontenti. Il popolo d’Israele ha fatto sempre una grande fatica a salvare la sua religione-fede diversa. Il suo è il Dio della vita che però non può essere rappresentato con i simboli della vita e della fertilità (tori, donne); è il Dio della voce che però solo Mosè riesce ad ascoltare; è il Dio che ha svelato il suo nome, un nome però impronunciabile. Troppo diverso, troppo nuovo. E anche oggi la nostra non è una cultura atea, ma idolatrica. Oggi il denaro permette di comprare tutto e così il denaro diventa tutto».
La prima nota di fondo di tutti i regimi idolatrici è proprio l’assenza di gratuità, che è invece la prima dimensione della fede biblica. La creazione è dono, l’alleanza è dono, la promessa è dono, la lotta all’idolatria è dono. Gratuità è l’altro nome di YHWH. La cultura dell’idolo odia il dono. «La gratuità – precisa Bruni – è una categoria economica, diversamente non serve a niente. E’ l’eccedenza rispetto ai contratti, al potere, ai comandi. E’ la differenza tra il professor Bruni e Luigino, cioè ciò che ti spinge a dare il meglio che hai ai tuoi studenti. Questo può essere soltanto dono. E questo è ciò che fa di un’impresa un luogo bello o brutto e se io dai lavoratori non ho questa voglia di vivere io non ho nulla, soltanto il contratto. La gratuità è questa eccedenza rispetto al doveroso. La famiglia è una scuola di gratuità, cioè il luogo dove impari che alcune cose vanno fatte in sé non perché c’è uno che ti paga. E quando questo manca l’impresa fallisce».
Oggi però manca la capacità di vedere il dono che c’è nel lavoro e questo fa sì che «la gente non si senta ringraziata abbastanza». Non è un caso che il lavoro sia una grande parola di questa esortazione. «Finché la nostra politica non imparerà a guardare il lavoro così, e continuerà a guardare gli insegnanti come fannulloni, non farà nessuna riforma. In quanto la prima riforma parte dalla stima delle persone. Se tu non ti senti stimato non dai il meglio di te».
L’esortazione si conclude con un paragrafo dal titolo «il tempo è superiore allo spazio». Ma che cosa vuol dire questo per l’economia. «Dietro all’idea del sabato – ha concluso Bruni - c’è il concetto biblico che il tempo e la terra non sono tuoi, ma sono dono e, quindi, ti devi fermare. Il riportare il tempo al centro del sistema economico implica dei concetti fondamentali: il primo è che i profitti delle imprese devono guardare al lungo periodo. Le imprese non possono giudicare i manager a tre mesi, diversamente è predatoria. Oggi abbiamo impoverito l’economia perché abbiamo reso troppo veloce il rapporto tra investimento e ritorno. E così i nostri imprenditori hanno smesso di investire nel lavoro e hanno iniziato a investire nella finanza speculativa che era molto più redditizia. Questo vale moltissimo per i giovani. Vanno attesi non possono avere esperienza se devono iniziare a lavorare. Serve una cultura dell’ospitalità aziendale. Un patto vero che dà modo ad un giovane di diventare un lavoratore semplicemente lavorando. Il grande problema del mestiere oggi è che i giovani non hanno mestieri. Per fare questo servono imprese pazienti».