Il suo Chardonnay Cuvée Bois è, per il Gambero Rosso, tra i primi 50 vini che hanno cambiato l’Italia, per la precisione al trentottesimo posto definito come «uno dei bianchi più affascinanti dell’intero panorama nazionale». Domani, venerdì 30 marzo, al Vinitaly la rivista «Civiltà del Bere» lo presenterà in un limitatissimo panel di degustazioni (solo undici produttori in tutto) dedicato alle belle storie di «sfide lanciate alla fine del secolo scorso e proiettate nel Terzo millennio». «In questo contesto – si legge sulla lettera d’invito – abbiamo individuato e invitato alla ribalta di Verona aziende e vini che probabilmente lasceranno un indelebile segno di innovazione e di qualità nel futuro». Costantino Charrère, 60 anni di Aymavilles, fondatore nel 1989 dell’azienda Les Crêtes (ora coadiuvato dalla figlia Eleonora neo-eletta presidente delle Donne del vino della Valle d’Aosta), solitamente molto prudente, non può nascondere che questo quarantunesimo Vinitaly costituisca il traguardo di un «raggiunto livello di notorietà nazionale e internazionale».
Un risultato eccezionale anche in virtù delle dimensioni dell’azienda. 230.000 bottiglie, 1,5 milioni di fatturato e circa 200.000 di export al di fuori dell’Ue e 25 ettari lavorati (20 di proprietà e 5 di un conferitore unico) sono sicuramente numeri eccezionali fra i produttori privati della piccola regione autonoma, ma superati i confini regionali costituiscono una massa critica che, soltanto grazie ad una qualità eccezionale e riconosciuta da tutte le guide di settore ed un forte impegno di promozione sul mercato nazionale e su quello estero, può confrontarsi ad armi pari con le grandi cantine italiane.
Charrère è fortemente convinto della necessità di fare sistema e di come la Valle d’Aosta si debba muovere smettendola di ragionare a compartimenti stagni con un’offerta frammentata che non riesce ad intercettare la domanda e a mettere insieme l’adeguata massa critica in grado di dare ossigeno all’economia regionale. «Diversamente – spiega Charrère – finiamo per essere provinciali, per non guardare al di là delle nostre montagne ed essere gelosi del vicino perché progredisce in quanto il sistema va bene così come è alimentato; ed è una visione riduttiva segnata, per giunta, spesso da troppi personalismi che, pur in presenza di risorse significative, finiscono per ostacolare lo sviluppo».
Charrère sull’onda di questo ragionamento non manca di portare l’esempio del settore vitivinicolo ed in particolare dell’Associazione piccoli produttori di vino. «Gli investimenti fatti per dare visibilità nazionale e internazionale all’etichetta “Les Crêtes” si sono riverberati sull’intera regione anche perché un Chardonnay, che fosse su una tavola Giapponese o negli Stati Uniti, portava comunque sulla sua etichetta la scritta Valle d’Aosta e questo non soltanto fa conoscere i vini valdostani ma anche crea turismo. Se aumenta la domanda, tanto per capirci, l’offerta può essere travasata ad altri soggetti a patto che ci sia una crescita di sistema. E questo in Valle d’Aosta è chiaramente avvenuto. Penso ad Anselmet, a Lo Triolet, a Grosjean, alle stesse cantine cooperative che hanno avuto anche loro la capacità di proiettarsi al di fuori dei confini regionali cercando di coprire la crescita di domanda dovuta a questo aumento di visibilità». «Questo, secondo me, - prosegue Charrère - è un esempio che si può riproporre anche in altre attività economiche. perciò non ha più senso limitarsi al prodotto alberghiero di Courmayeur fine a sé stesso, ma si deve presentare il prodotto alberghiero della Valle d’Aosta in un sistema integrato che però deve crescere complessivamente sia in qualità sia in cultura dell’ospitalità».
Ritornando al settore vitivinicolo Charrère constata che si va verso una specializzazione sempre maggiore, verso scelte che devono essere molto attente al mercato, al gusto del consumatore. «L’esempio più classico – conclude – è quello dei vitigni autoctoni. Il consumatore li sta cercando e come produttori valdostani siamo ben posizionati sul mercato, basta pensare alla diffusione crescente della Petite arvine o del Fumin. Un’attenzione che potrebbe anche trasformarsi in enoturismo ed essere una piccola risorsa in termini di presenze nelle stagioni notoriamente meno frequentate». (Pubblicato sul Corriere della Valle d'Aosta del 29 marzo 2007)
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